Il Pomigliano negli scorsi giorni ha pubblicato una nota che ha fatto parlare molto. A poche ore dalla sfida in casa contro la Juventus, la società ha reso noto ai suoi tifosi come la gara verrà giocata a porte chiuse per via di problemi logistici con lo stadio Gobbato di Pomigliano d’Arco.
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Sopraggiungono diversi temi che sarebbe giusto affrontare riguardo a questo: dal diritto al calcio al problema infrastrutturale; per passare al solito, grande argomento del professionismo, che tante volte viene criticato aspramente, ma che questa storia ci racconta non essere assolutamente il problema.
Il problema delle infrastrutture
Partiamo dal nodo logisticamente più difficile da sciogliere: quello infrastrutturale. La presidente della Divisione Calcio Femminile Ludovica Mantovani tratta in modo quasi paranoico questo argomento in ogni sua dichiarazione. L’ultima volta accadde proprio in occasione di una gara della Juventus in Coppa Italia contro il Cittadella: in quell’occasione il panorama degli spettatori fu talmente sorprendente che mise di fronte a tutti ancora di più l’aspra dicotomia tra tifosi ed infrastrutture.
Il problema c’è ed è evidente, in più costituisce anche l’unica vera tappa da affrontare in ogni modo e con ogni forza per trasportare di peso questo movimento nel luogo che merita. Martina Angelini, intervistata da noi in esclusiva qualche giorno fa (e molto attaccata per alcune sue dichiarazioni), ha posto un tema molto importante in tal senso. Una partita di calcio femminile, qualunque essa sia, attrae molto più pubblico se disputata in una Stadio degno di questo nome (banale esempio quello del Tardini di Parma) rispetto ad una disputata in un centro sportivo, magari anche tra due club al vertice. L’esempio è presto dimostrato. Basta comparare i dati dello share di La7 di due gare diverse, quella tra Parma e Juventus al Tardini del 19 novembre (217.000 spettatori con uno share del 1.79%) e quella di appena sette giorni più tardi, Fiorentina-Milan al Piero Torrini (61.000 con appena lo 0.5% di share). I risultati sono quasi imbarazzanti, ancora di più se si pensa al fatto che la prima gara era tra una contendente al titolo e l’ultima in classifica, mentre la seconda quasi una sfida al vertice. Gli stadi di Serie A attirano più pubblico e fanno più effetto, in un mondo dove sempre di più contano lo spettacolo e l’apparenza.
Ma è anche un problema che attanaglia il nostro Paese in ogni campo e sotto ogni aspetto. Un Paese dove, non ci sentano gli amici inglesi, non abbiamo e forse non avremmo mai la loro quantità di impianti sportivi (solo a Londra si contano 16 stadi interamente dedicati al calcio) e le possibilità burocratiche di disputare gare all’Olimpico come in Inghilterra si disputano a Wembley. Ed è abbastanza indicativo il fatto che, nello stesso giorno in cui il Pomigliano ha diramato il comunicato, all’Emirates Stadium Arsenal-Chelsea Women ha fatto staccare 47.000 biglietti.
Il professionismo non è il problema in questo Paese
E ora che nessuno venga a dare la colpa al professionismo. Nessuno imputi ad una scelta ardita le colpe di un sistema burocratico che impedisce alle società di andare avanti. Lo stesso che impedì alla Roma di disputare gare di Champions League Al Tre Fontane di Roma, per via della mancanza di impianti di illuminazione chiesti al comune da anni e anni, costringendo la società a scegliere il Francioni di Latina come ultima spiaggia.
Che nessuno dia colpe a chi cerca di guardare avanti, perché casomai è disdicevole chi, per immobilismo, sceglie di restare indietro. E per i motivi di cui prima, chi paragona il movimento calcistico italiano rispetto a quello di altri paesi sappia che sta offendendo la sua intelligenza. Perché qui gli stadi li chiudiamo, intorno a noi non fanno altro che aprirli al calcio femminile. E quindi non ci sono modelli di “professionismo all’inglese”, di “transizioni professionistiche” che tengano, ci sono paesi diversi e diversi per definizione, in cui ogni circostanza va trattata nella singolarità delle sue contingenze. Ogni visione più semplicistica di questa, come sempre, è solo fumo negli occhi e consenso facile.
In sostanza, viva chi guarda avanti, viva chi, in barba a quelli che restano fermi, decide di iniziare un viaggio, per quanto lungo e tortuoso.
E i tifosi?
Probabilmente riderebbero di noi i professori Zagrebelsky e Amato, se a loro parlassimo di “diritto al calcio”. Eppure sarebbe giusto reclamarlo in certe occasioni, quelle in cui le società in primis mancano di rispetto al loro motore principale, fatti che spesso e troppo spesso accadono nella nostra Serie A Femminile (per non parlare della cadetteria). Le società che non adempiono all’obbligo di rispettare i propri tifosi e quelli avversari meritano sanzioni, perché ledono l’immagine di un movimento che tanto sta facendo per la sua crescita.
Ed in questo, con la solita schiettezza che contraddistingue i tifosi calcistici, sono stati molto chiari gli Juventus Women Supporters, in una nota congiunta con “Dominio Bianconero”, dove viene rivendicata la necessità di “seguire la propria squadra del cuore senza ostacoli di mezzo”. Ed è avvilente pensare che proprio le società, che nei tifosi dovrebbero trovare il loro maggior tesoro, manchino loro così di rispetto.
Solidarietà, quindi, per tutti i tifosi a cui viene tolto il diritto al calcio; una preghiera invece per tutti i club: meditate sulla realtà alla quale appartenete, e sull’importanza che, nella vita delle persone, ricoprono.